Binta Diaw. Il peut pleurer du ciel
a cura di Ilaria Bernardi
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo
21 giugno – 22 ottobre 2024
opening: 20 giugno, ore 19-21
Mostra co-organizzata e co-prodotta da Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Associazione Genesi, nell’ambito della terza edizione di Progetto Genesi. Arte e Diritti Umani promosso dalla medesima associazione
Il 20 giugno 2024 alle ore 19 inaugura negli spazi della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Il peut pleurer du ciel, la mostra personale di Binta Diaw (Milano, 1995), curata da Ilaria Bernardi, co-organizzata e co-prodotta da Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Associazione Genesi.
Il progetto è concepito come un’immersione multisensoriale che affronta la complessa questione della migrazione e della sua storia tra due continenti: Africa ed Europa. Urgente questione politica ed economica attuale, la migrazione è anche un tema filosofico profondo in cui si intrecciano identità, patrimonio culturale e immaginazione.
Fin dagli inizi della sua ricerca artistica, Binta Diaw si interessa dei movimenti dei popoli nel corso del tempo, siano essi volontari o forzati, ufficiali o non ufficiali. L’artista approfondisce, in particolare, la nozione di diaspora che connota anche il corso della sua stessa esistenza, da italiana di nascita, nata da genitori senegalesi in Italia. Al di là del tema delle origini e del ri-radicamento che lo spostamento fisico e simbolico di una vita umana solleva, l’idea di diaspora è da lei sviluppata anche come il momento in cui “si cerca di essere molti esseri allo stesso tempo”; in altre parole”, mutuando ancora le parole di Edouard Glissant “ogni diaspora è il passaggio dall’unità alla molteplicità”. Da qui l’interesse di Diaw per la lunga storia migratoria e diasporica dell’Africa, intesa come punto di partenza, ma anche come territorio connaturato dalla cosiddetta “vocazione africana ad andare altrove”.
Per la tappa di Progetto Genesi alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Binta Diaw crea un’installazione immersiva che affronta il tema della migrazione in modo non convenzionale per condurci verso il racconto della sensibilità del corpo umano migrante nei suoi legami con la natura e con la cultura che lo circonda.
Un video, concepito come una meditazione visiva sull’oceano e girato nel quartiere periferico di Yarakh a Dakar, è proiettato sulla parete di fondo della sala. La telecamera si focalizza sull’acqua del mare e sulle onde che si formano al largo. Sullo sfondo appare in lontananza Lampedusa, terra al crocevia di due continenti. Nell’acqua appare invece una massa scura, una forma rettangolare che fluttua contro il vento e le maree. Questa forma è una stuoia di terra attraverso cui l’artista evoca la ricchezza semantica dell’espressione «questa è la mia terra», facendo riferimento alla terra che scegliamo per noi stessə, oppure quella che ci viene imposta, con particolare riferimento alla storia dell’Africa e alla sua storia coloniale.
Al suolo, due grandi teli in plastica rinviano al tappeto presente nel video ma al contempo all’inquinamento delle acque, e accolgono numerose piccole sculture, tra loro identiche, fatte con la terra, a evocare la riduzione occidentale a puri numeri, considerati medesimi, dei corpi e delle storie dei migranti che arrivano sulle coste europee.
Spiega l’artista: “Ho girato questo video nel quartiere periferico di Yarakh a Dakar con l’intento di spostare l’attenzione sul luogo di partenza e sulla partenza stessa delle persone che decidono di partire da lì. La migrazione è ormai generalizzata in un’unica immagine: i migranti che sbarcano e che invadono. Ma non ci si chiede e non cisi sofferma a pensare da dove partono, da che sofferenze arrivano e soprattutto in che modo hanno affrontato il viaggio. Il video è dunque una metafora del corpo che attende la sua sorte: un invito da parte dell’oceano che accoglie il corpo nelle sue acque fino a quando quello stesso corpo viene respinto. Il tappeto, da sempre legato in alcune culture a concetti quali quello di ospitalità e spiritualità, nel video diviene una metafora del corpo migrante, del corpo in movimento da un luogo all’altro, da uno stato fisico ma anche mentale, a un altro”.
La mostra è accompagnata da una monografia sull’artista, curata da Ilaria Bernardi, edita da Silvana Editoriale e prodotta dall’Associazione Genesi. Il volume fornisce la prima ricognizione dell’intera sua ricerca attraverso una cronologia ragionata delle opere da lei realizzate fino a oggi.
L’esposizione si svolge nell’ambito della terza edizione di Progetto Genesi. Arte e Diritti Umani, promosso dall’Associazione Genesi dal settembre 2021. Si tratta di un progetto interdisciplinare e inclusivo, in edizioni annuali, a cura di Ilaria Bernardi, che coniuga momenti espositivi e educativi di volta in volta differenti, con l’obiettivo di fornire un’educazione permanente in tema di diritti umani. L’idea da cui origina la concezione di Progetto Genesi è che l’arte contemporanea possa assumere il ruolo di ambasciatrice dei diritti umani. Concepito come itinerante, per radicalità di impegno, vastità di orizzonti e ampiezza del ventaglio di iniziative che lo compongono, rappresenta un vero e proprio unicum nel sistema dell’arte contemporanea, non solo italiano.
Al fine di ampliare l’attenzione sull’importante progetto espositivo di Binta Diaw negli spazi della Fondazione Re Rebaudengo, la Fondazione ha voluto attivare un percorso di avvicinamento ad esso attraverso due diversi momenti, entrambi curati dal curatore della Fondazione Bernardo Folini: la realizzazione di un wallpaper, raffigurante uno dei lavori dalla serie dei Paysages Corporels, inaugurato a Guarene il 18 giugno; e una mostra ad Alba, al Palazzo Banca d’Alba, inaugurata il 14 giugno e visitabile fino al 21 luglio 2024, che presenta alcune molto note opere dell’artista già esposte in passato in importanti occasioni espositive.